quarta-feira, 3 de junho de 2009

INTERVISTA AL FONDATORE DI REPUBBLICA: Eugenio Scalfari: la mia via Veneto è una trincea - Torna il volume di 23 anni fa: memoria d'un gruppo e di un'idea mai invecchiata



E' la storia di un piccolo gruppo di amici, intellettuali e giornalisti che partendo da zero riuscirono a costruire non solo un settimanale (Il Mondo), non solo un altro settimanale (l'Espresso), non solo un quotidiano (La Repubblica), non solo un impero editoriale e informativo: «Soprattutto riuscimmo a diffondere una cultura politica che cinquant'anni fa era patrimonio di pochi e che poi si è via via allargata fino a diventare patrimonio di metà del Paese e di arrivare addirittura al governo due volte. La cultura liberal-democratica». Eugenio Scalfari scrisse 23 anni fa La sera andavamo in via Veneto, che oggi viene ripubblicato da Einaudi.

Una nuova edizione dopo tanto tempo senza neanche una post-fazione per spiegarne il motivo: perché questo libro sarebbe ancora attuale?
«La decisione di ripubblicarlo è un'idea dell'editore che, credo, visto il successo del mio L'uomo che non credeva in Dio (Mondadori, cioè la casa madre dell'Einaudi) ha pensato di rimettere in circolo quel libro che ebbe anch'esso un notevole riscontro vendendo 50 mila copie. Quanto alla post-fazione, non penso ce ne fosse bisogno perché l'attualità di quella storia è implicita nella storia stessa. E cioè, appunto, come dal Mondo e dai suoi convegni, passando per l'Espresso e sfociando nella Repubblica, quel gruppetto, diventato via via un gruppone, riuscì a contribuire a alla modernizzazione del Paese dal punto di vista culturale e politico. Penso al centrosinistra il cui programma fu in gran parte scritto proprio durante i convegni degli Amici del Mondo, la nazionalizzazione dell'energia, la Consob, la legge Brodolini sui diritti dei lavoratori. E quello fu il primo e fondamentale salto in avanti rispetto a una situazione che vedeva l'Italia chiusa tra due Chiese, la Dc e il Pci».

Stiamo parlando di cinquant'anni fa...
«Infatti, si è dovuto aspettare e lavorare parecchio, aiutati da enormi avvenimenti mondiali, perché questa situazione si sbloccasse. E si sblocca prima con gli strappi di Berlinguer, poi con De Mita che porta la sinistra Dc alla guida del Partito, poi ovviamente con il crollo dell'Urss, e da noi con Tangentopoli e l'avvio della Seconda Repubblica. Quindi con la nascita dell'Ulivo e poi del Partito democratico che io considero le vere espressioni politiche di quella cultura nata in via Veneto. Con una battuta, direi che noi siamo stati i profeti del Pd».

Nel frattempo però la cultura politica che si è affermata in Italia non è certo la vostra...
«Ma non è la prima volta né, temo, sarà l'ultima che in Italia si afferma il populismo demagogico, da Crispi a Mussolini fino a Berlusconi. C'è un fiume carsico nel nostro Paese che ogni tanto emerge, è il fiume dell'antipolitica, dell'indifferenza, dello schiacciamento sul presente e sul bisogno effimero di felicità. E' il qualunquismo italiano che viene fuori, caccia l'altra Italia, quella raziocinante, responsabile, riformista, e si prende il potere. Ricordo il dibattito tra Croce e Parri, il primo diceva che il fascismo era stato un incidente di percorso, il secondo ribatteva che invece era presente nella natura della storia italiana. Aveva ragione Parri».

Sembra difficile però che questo fiume carsico scompaia da solo all'improvviso.
«Certo, anche perché a differenza del passato, oggi l'informazione, la propaganda, la cultura e la politica si diffondono attraverso televisioni, internet, e così via. E in Italia la gran parte di questa tecnologia sta nelle mani di un uomo solo, che non a caso è anche il capo del governo. Dunque, non sarà facile. Però esiste sempre la metà del Paese, e sono milioni di persone, che non cedono a quelle sirene. Oggi sono scoraggiati, sparpagliati, si rifugiano nell'indifferenza, ma io sono sicuro che quando cominceranno a sentire sulla loro pelle che la nostra democrazia è sempre meno democratica e sempre più autoritaria, troveranno la forza di reagire».

Torniamo alla tua creatura, Repubblica. Non si è ancora capito perché hai deciso di lasciare la direzione del giornale 13 anni fa.
«La storia è questa: io volevo lasciare a 65 anni, l'età della pensione, e lo dissi a Carlo Caracciolo. Il quale mi rispose con "vabbé vabbé", come dire: stronzate. Quando arrivò quell'anno, ricordai a Carlo che avevamo detto... Lui rispose: "Avevi detto, non avevamo". Contemporaneamente scoppiò la guerra di Segrate per il controllo del gruppo e ovviamente non lasciai. Rilanciai però sui 70 anni, avevo bisogno di una data certa, una cifra tonda. E lo spiegai sia a Carlo che a De Benedetti, diventato nel frattempo il nostro editore. Ma i miei 70 anni arrivarono nel '94, l'anno della scesa in campo di Berlusconi. Rimasi ma lanciai un ultimatum: lascio tra due anni, ossia quando Repubblica compirà vent'anni, venissse anche Cristo in terra, io lascio. E così feci».

Questa è la genesi, ma la ragione non ce l'hai ancora spiegata...
«La ragione è che volevo lasciare quando fossi stato ancora abbastanza autorevole per poter scegliere io chi mi avrebbe sostituito e per poter vigilare e accompagnare la nave in mare aperto guidata da un altro comandante, cioè Ezio Mauro. Se avessi aspettato ancora qualche anno, non sarei più stato in grado di farlo».

RICCARDO BARENGHI - La Stampa

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